Alessandra-Maggi

Donne a colori: come nasce?

Benvenuti in Donne a colori, il blog di una Donna per le Donne, dove gli stereotipi non sono ammessi e la regola fondamentale è che ogni donna è unica e perfetta senza dover rispondere per forza agli schemi impostati dalla società. L’origine di questo progetto è in una mia vicenda personale che nel giro di due anni ha radicalmente cambiato la mia vita.

L’autrice

Sono Alessandra, una pavese di 27 anni mamma di tre bambine: un angelo di 4 anni che ha deciso di nascere troppo presto, Kimera di 3 anni e Grimilde di 1 anno e mezzo. Mi sono sposata nel 2017, dopo il parto prematuro della mia primogenita, con l’uomo che pensavo fosse l’amore della mia vita e con cui convivevo già da 2013. L’anno scorso, in piena pandemia, dopo fatti molto gravi, mi sono separata. Ora ho una relazione a distanza con uomo più grande. Sono una figlia di genitori divorziati che hanno avuto un rapporto complicato e conflittuale sia tra di loro che con me, ho un patrigno e una sorella nata dalla nuova relazione di mia madre. Sono una donna disabile, ho un disturbo di personalità borderline diagnosticato alle elementari e che ho con fatica e sofferenza imparato a gestire, con qualche difficoltà e molta pazienza. Sono consulente per due aziende di vendita diretta, Avon e Faberlic, e mi occupo anche del reclutamento e della formazione di nuovi consulenti. Collaboro occasionalmente con diverse aziende come tester e influencer, anche se la strada per arrivare ai giusti livelli è ancora lunga. Sono una studentessa fuori corso di Scienze della Comunicazione all’università di Pavia.

Da dove nasce Donne a colori?

L’origine di questo progetto è in una mia vicenda personale che ha radicalmente cambiato la mia vita. In due anni sono passata da moglie sottomessa e maltrattata a madre sola di due bambine piccole, con una relazione a distanza, un moderno lavoro online e le mille difficoltà di interfacciarsi con il sistema di tutela minori e le sue immense falle e difficoltà.

Com’è iniziata: i fatti gravi

Per diversi anni sono stata vittima di violenza domestica da parte del mio ex marito. Dopo la nascita di mia figlia Kimera ho cominciato a rendermi conto che lui non sarebbe mai cambiato. Nel 2019 ho conosciuto il mio nuovo compagno che mi ha definitivamente aperto gli occhi e ho cercato di allontanarmi, ma ero incinta e questo ha complicato le cose. Dopo diverse segnalazioni alle forze dell’ordine, un giorno ho detto basta e da lì è iniziato un calvario. Il mio ex marito mi ha denunciata con false accuse, il tribunale dei minori ha disposto allontanamento di nostra figlia, alla nascita di Grimilde siamo finite in comunità mamma bambino e per quasi due anni ho lottato per tornare a casa e riprendermi Kimera.

L’esperienza della comunità

Per combattere la mia guerra contro la tutela minori e le sue immense falle, per 16 mesi sono stata costretta a vivere in comunità mamma bambino. Ho cambiato due comunità in questo lungo e devastante periodo, e grazie a questa triste esperienza ho avuto modo di conoscere tante donne, di tante nazionalità, con tantissime storie tutte diverse ma ugualmente toccanti e importanti. Ho conosciuto una realtà di cui non si conosce nulla al di fuori e mi sono resa conto di quanto davvero siano le persone a fare la differenza in queste strutture: chi avrebbe mai immaginato che bastasse pensarla diversamente da chi ti deve valutare sul tipo di svezzamento da proporre per sentirsi definire come madre inadeguata? Chi poteva pensare che una persona potesse finire rinchiusa per anni con mille limitazioni solo per la lentezza della burocrazia?

Ho visto donne rassegnate perché i loro documenti non erano pronti dopo più di 3 anni di attesa, ragazze madri rinchiuse perché rimaste incinte ancora minorenni, donne vittime di violenza come me rimaste bloccate in un limbo di valutazioni, quasi fossero loro le carnefici e non chi le picchiava.

Cosa ho imparato?

In questo lungo e difficile percorso parzialmente concluso il 13 agosto con il decreto che mi ha rimandata a casa e ha disposto il ritorno di Kimera con noi mi sono resa conto di quanto posso essere forte e allo stesso tempo fragile. Essere fragile non significa essere sbagliata, ma semplicemente essere umani. È giusto permettersi di essere fragili, di piangere e urlare. Tutti ne hanno diritto, non bisogna essere forti per forza. Ho imparato a chiedere aiuto perché umanamente è impossibile fare tutto da sola, e che chiedere aiuto non è essere deboli ma riconoscere i propri limiti, una cosa fondamentale per la propria crescita personale e per raggiungere la consapevolezza di sé. E soprattutto ho avuto modo di vedere quanto le Donne possono fare per se stesse e per le loro compagne di esperienza. Ho scoperto che posso essere straordinaria.